Amarcord / Intervista al chitarrista dei Dik Dik Pietro Montalbetti:
«Volevo una barca a vela e un viaggio fino alle isole Fiji. Lui mi spiazzò…»
Lo conobbe in un piccolo studio di registrazione a Milano: seduto al pianoforte, un bel viso, magrolino con la zazzera di capelli ricci. Così Pietro Montalbetti, detto Pietruccio, leader dei Dik Dik e amico dell’artista ben prima che diventasse famoso, incontrò Lucio Battisti, tanto amato quanto schivo e riservato. Oggi il cantautore nato il 5 marzo 1943 a Poggio Bustone avrebbe compiuto 73 anni.
Il vostro primo incontro?
«In quegli anni suonava la chitarra con i Campioni, un complesso fondato da Tony Dallara. Mi fece ascoltare le sue canzoni, devo dire che non erano un granché. Da subito tra di noi nacque un’empatia, ma a fine giornata ci salutammo senza nemmeno esserci scambiati un indirizzo. Lo incontrai qualche tempo dopo per caso, la vigilia di Natale del 1964, in piazza Duomo. Era a Milano per suonare con la sua orchestra, mi disse che non aveva i soldi per tornare a Roma in tempo così lo invitai a casa mia per il pranzo di Natale. Anche se era timido alla fine accettò. Iniziò così la nostra amicizia, con un pranzo in famiglia e un paio di guanti che mia mamma gli regalò».
E fu durante quel pranzo che incontrò Cesare Monti – fratello di Pietruccio, all’anagrafe Montalbetti -, che realizzò le copertine di tutti i suoi dischi.
«Quel Natale lo passai a prendere in una piccola pensione, stava vicino alla Statale. Conobbe mio fratello, mio zio, mia mamma. E poi iniziammo a frequentarci: in Sognando la California, il nostro secondo 45 giri, c’era anche una canzone firmata da lui, Dolce di giorno. Parlavamo molto, partivamo per gite e viaggi organizzati con quattro soldi. In tanti hanno detto di aver scoperto Battisti, ma a credere in lui furono Christine Leroux, cacciatrice di talenti per la Ricordi, poi naturalmente Mogol. Lucio diceva sempre che c’era qualche cosa in lui, che non sapeva come tirare fuori».
Nel 1966 fu Mogol a insistere con Battisti, perché cantasse le sue canzoni, anziché affidarle ad altri artisti.
«Un giorno chiesi a Lucio, se diventi famoso che cosa vuoi? Io sognavo una barca a vela e un viaggio fino alle isole Fiji. Lui mi disse: “Petrù, io voglio una casa, una famiglia e un giardino”. N on era fatto per essere una rockstar . Quando sei famoso, non appartieni più solo a te stesso, ma al pubblico. Lui si negava, non concedeva autografi a nessuno. Quando ci trovavamo a cena a Roma, qualcuno ci riconosceva, lui negava di essere Battisti. E io e i ragazzi pure, dicevamo ma no, non è lui. È rimasto sempre così, il ragazzo semplice che conobbi a Milano».
Sulla vostra amicizia ha scritto il libro Io e Lucio Battisti, pubblicato da Salani. Racconta quando vi cacciarono dal Casinò di Sanremo perché senza cravatta, della sua prima esibizione davanti a una grande platea con Un’avventura, in coppia con un grande del soul, Wilson Pickett.
«Ricordo che un giorno, quando i Dik Dik erano già famosi, andammo insieme a Roma con la mia Porsche. Mi chiese un consiglio su cosa indossare, gli diedi i miei pantaloni nuovi a righe, gli consigliai un foulard da mettere sul collo per coprire le cicatrici. Quel giorno mi chiese di accompagnarlo a Poggio Bustone, a casa sua, era orgoglioso di presentarmi a parenti e agli amici. Negli anni andai spesso a trovarlo, anche al ritorno dei miei viaggi in giro per il mondo: era solitario, gioviale con chi gli piaceva, un ottimo ascoltatore. E poi ci sono due miti che vorrei sfatare».
Quali?
«Non era avaro, ma parsimonioso. L’avidità è una brutta cosa, la parsimonia no: rispettare il denaro è una qualità. Non è mai stato di destra. Negli anni Sessanta chi componeva canzoni impegnate era di sinistra, chi parlava di amore invece di destra. Lui era apolitico, anche se ci capitò di andare insieme a qualche manifestazione. Non gli interessava granché, lui cantava d’amore. E l’amore l’ha reso immortale».
(Nadia Ferrigo, “La Stampa” del 5/3/2016)