

Se è vero che ogni uomo che non viva sulla luna è ben consapevole della fallibilità umana e non ignora che anche i giudici possono sbagliare, è anche vero che in considerazione degli irreparabili e devastanti effetti che derivano dagli errori giudiziari, l’ordinamento giuridico dovrebbe garantire:
– la più severa vigilanza sulla condotta del magistrato inquirente e di quello giudicante affinché la loro funzione non sia inficiata dalla passione e dal fanatismo;
– la più assoluta e rigorosa applicazione del principio di presunzione di innocenza dell’imputato;
– la più grande “lontananza” possibile (in senso fisico e professionale) del magistrato inquirente da quello giudicante;
– l’obbligo per il magistrato di rispondere di fronte alla legge, ove abbia commesso gravi errori nell’esercizio della sua funzione.
E riguardo a questo tema, in riferimento al caso Calas, con cui
Vergès avvia il suo esame, non conosciamo più perfetta ed efficace riflessione di quella che Voltaire ci ha lasciato all’inizio del suo Traité sur la tolerance à l’occasion de la mort de Jean Calas: «Ma se un padre di famiglia innocente viene consegnato nelle mani dell’errore, o della passione, o del fanatismo; se l’accusato non ha a sua difesa altro che la propria virtù; se nel trucidarlo gli arbitri della sua vita non corrono altro rischio che quello di sbagliarsi;
se essi possono uccidere impunemente con una sentenza: allora si leva il grido pubblico, ciascuno teme per se stesso, accade che di fronte a un tribunale istituito per vegliare sulla vita dei cittadini nessuno è sicuro della propria vita, e tutte le voci si uniscono
per chiedere vendetta».
«Invochiamo il potere di punire per difendere la nostra sicurezza. Ma come ci difendiamo dal potere di punire?»
È un potere tragico, il potere di punire. Protegge, minacciando. Contiene la violenza attraverso l’uso della forza. È uno scudo potente; ma può ferire quanto le armi da cui difende. La sua fonte di legittimazione risiede nella tutela della vita, dell’integrità e della libertà delle persone; che, in assenza di proibizioni legali munite di sanzioni, resterebbero in balìa della legge del più forte.
Eppure, esso invade la sfera di immunità che presidia: inquisendo, imputando, costringendo e condannando. È un potere necessario e terribile, il cui esercizio può sempre degenerare in forme oppressive. Per questo, occorre limitarlo e modellarlo attraverso il diritto, al fine di renderlo aderente agli scopi garantistici che ne costituiscono la ragion d’essere.
«È dalla bontà delle leggi penali – scrisse Montesquieu, oltre due secoli e mezzo fa – che dipende principalmente la libertà del cittadino»: dalla configurazione della sfera dei reati, dalla composizione dell’arsenale delle pene, dall’organizzazione giurisdizionale e dalle regole del processo. Questa lezione politica ha lasciato una traccia profonda nella civiltà del diritto. Ha ispirato Beccaria, ha fecondato il dibattito illuministico, ha inciso sul processo di laicizzazione, umanizzazione e razionalizzazione del sistema penale.
Rileggere l’Esprit des lois, in un’epoca di espansione del potere punitivo, può essere un utile esercizio di resistenza contro la propaganda dogmatica del securitarismo. Con la sua critica dei divieti esorbitanti, dei castighi sproporzionati, delle accuse inverificabili e dei giudizi arbitrari, Montesquieu ci avverte che le fondamenta dello Stato di diritto poggiano sul terreno del garantismo penale.
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Negli anni settanta del Novecento si sviluppò un nuovo concetto di garantismo, legato al rispetto di una serie di diritti nel campo della procedura penale e incentrato sull’accertamento oggettivo della verità dei fatti, al di là di qualsiasi manipolazione e da qualsiasi arbitrio da parte del potere politico o giudiziario. In risposta alla legislazione d’emergenza con cui la politica italiana tentava di fronteggiare il fenomeno del terrorismo, i giuristi d’orientamento progressista teorizzarono il primato dei diritti individuali di immunità e di libertà di fronte al potere punitivo dello Stato. Significative a questo proposito le tesi di Luigi Ferrajoli, che riassumevano, in dieci principi generali, un sistema di garanzie nella giustizia penale:
- nessuna pena senza reato (principio di consequenzialità della pena al reato)
- nessun crimine senza legge (principio di legalità)
- nessuna legge penale senza necessità (principio di economia del diritto penale)
- nessuna necessità di legge penale senza danno (principio della offensività dell’evento)
- nessun danno senza azione (principio di materialità o esteriorità dell’azione)
- nessuna azione senza colpa (principio di colpevolezza o della responsabilità personale)
- nessuna colpa senza processo (principio di giurisdizionalità)
- nessun processo senza accusa (principio della separazione tra giudice e accusa)
- nessuna accusa senza prova (principio dell’onere della prova)
- nessuna prova senza difesa (principio del contraddittorio).
Delle dieci garanzie individuate da Ferrajoli, le prime sei rappresentano garanzie penali sostanziali, le ultime quattro sono garanzie processuali. Tali garanzie processuali costituiscono il nucleo di un più ampio, e non solo penale, garantismo giudiziario.
I principi fondamentali del garantismo giudiziario sono costituiti da:
- garanzia dagli arresti arbitrari
- habeas corpus (cioè immediata comunicazione dei motivi dell’arresto e celere presentazione al magistrato, perché possa eventualmente decidere la messa in libertà)
- principio del contraddittorio, diritto alla difesa e partecipazione del difensore a tutte le fasi del procedimento penale
- limitazione dei casi di carcerazione preventiva
- presunzione di innocenza fino alla condanna definitiva
- condanna soltanto dopo una acquisizione di prove del tutto convincente (inammissibilità dei processi indiziari).