In un momento storico in cui il nome di democrazia è associato a guerre omicide, alla crociata del bene contro il male, alla tortura, diventa necessario e urgente qualificare nel modo migliore la democrazia per dissociarla da queste iniziative evidentemente antidemocratiche, “cancro della democrazia” per usare i termini di Vidal-Nacquet. Così già da molto tempo – nell’intento di strappare la democrazia alla sua neutralizzazione, di sottrarla alla banalizzazione – alcuni autori hanno scelto aggettivi tali da indurla a riscoprire la sua differenza, la sua estraneità rispetto ai fenomeni di dominio, che tentano di dissimularsi dietro il suo nome.
Tra questi aggettivi, merita la nostra attenzione quello di democrazia selvaggia di Claude Lefort, o di democrazia radicale. In ogni caso, se non si cerca di qualificare la democrazia, essa rischia di perdere ogni volto riconoscibile, e sarebbe trascinata nella zona grigia della banalizzazione universale. Nel linguaggio quotidiano delle nostre società, essa non viene forse continuamente confusa con lo Stato di diritto o con il regime rappresentativo?…
Da parte mia, propongo l’espressione “democrazia insorgente”. Ma, come mi ha fatto osservare il traduttore di questo libro, il problema è che il termine “insorgente” in francese non esiste, se non in forma pronominale. Perché scegliere quest’aggettivo qualificativo, ricorrendo a un participio presente, che sfiora il neologismo? Ho preferito democrazia insorgente a democrazia insurrezionale perché, grazie alla forma verbale, potevo sottolineare due particolarità:
– la democrazia non è un regime politico, ma innanzitutto un’azione, una modalità dell’agire politico, specifica nel senso che l’irruzione del demos, del popolo sulla scena politica, in opposizione a coloro che Machiavelli chiama “i Grandi”, lotta per instaurare uno stato di non-dominio nella città.
– l’azione politica di cui parliamo non avviene in un momento, ma è un’azione continuata che si iscrive nel tempo, sempre pronta a riprendere slancio in ragione degli ostacoli incontrati. Si tratta della nascita di un processo complesso, di una istituzione del sociale orientata verso il non-dominio, che si inventa in permanenza per meglio perseverare nel suo essere e dissolvere i contromovimenti, che minacciano di annientarla e di ritornare a uno stato di dominio. Democrazia insorgente è più efficace di democrazia insurrezionale, perché questa evoca sì un modo di agire del popolo, ma senza prendere in considerazione l’inserimento continuato nel tempo.
In tal senso, considerando le giornate rivoluzionarie che hanno scandito il corso della Rivoluzione francese, osservando la loro successione, il loro ritmo, si potrebbe definire la Rivoluzione come una democrazia insorgente, che si sarebbe manifestata con continuità dal 1789 al 1799, se teniamo conto della Congiura degli Uguali. Come se il popolo nel corso di questi dieci anni avesse dovuto irrompere a più riprese sulla scena rivoluzionaria, per proclamare la sua vocazione ad agire allo stesso tempo contro lo Stato dell’Ancien Régime e le sue sopravvivenze – e contro il nuovo Stato, il “governo rivoluzionario”, per riaffermare il suo legame con un modo d’essere del politico, sotto il segno del nondominio. L’ultimo libro di Sophie Wahnich, La lunga pazienza del popolo, va in questa direzione.
In tal senso sono degne di nota le ultime insurrezioni dell’anno III, di Germinale (aprile 1795) e soprattutto di Pratile (maggio 1795), durante le quali il popolo – quanto restava delle sezioni parigine – invase la Convenzione con una duplice parola d’ordine: Pane e Costituzione del 1793, come si trova in un pamphlet che precede gli eventi: Insurrezione del popolo per ottenere del pane, riconquistare i suoi diritti. Associando la costituzione alla richiesta di pane, cos’altro faceva il popolo se non rivendicare il diritto all’insurrezione, che ad esso riconosceva la costituzione del 1793? Cos’altro faceva, se non lottare per riprendersi il potere che ad esso apparteneva in quanto popolo sovrano, e cioè il potere costituente? Nell’incendio generalizzato dei due primi giorni di Pratile, si vedono i tratti della democrazia istituente: una opposizione brutale tra il popolo e i Grandi del momento. Secondo lo storico di queste insurrezioni, K.D. Tonnesson, si trattava di un’aperta rottura tra le due parti del Terzo Stato urbano, la borghesia e il popolo minuto. Insurrezioni quasi esclusivamente popolari, le insurrezioni dell’anno III creano una situazione di doppio potere: da un lato il potere popolare dei sanculotti parigini, dall’altro il potere governativo, col progetto di sostituire l’uno all’altro. In effetti, i fini esplicitamente politici erano l’abolizione del governo rivoluzionario, l’applicazione immediata della Costituzione del 1793, la destituzione e l’arresto dei governanti attuali. Più in profondità, vediamo affiorare il principio che anima l’insurrezione: la ricerca di un rapporto politico, di un legame politico vivo, intenso, non gerarchico a differenza dell’ordine; la lotta per preservare la facoltà d’agire del popolo e impedire che quanto costituisce il legame fra i cittadini degenerasse nuovamente in un ordine costrittivo, verticale, gerarchico, e che esercita il suo comando dall’alto. Basta leggere il pamphlet L’insurrezione del popolo… per veder emergere in modo nettissimo il contrasto tra il legame e l’ordine. “I cittadini e le cittadine di tutte le sezioni indistintamente partiranno d’ogni punto in fraterno disordine, e senza attendere il movimento delle sezioni vicine, che faranno marciare con loro; in modo che il governo perfido e astuto non possa più mettere la museruola al popolo com’è sua abitudine, facendolo condurre, come un gregge, da capi ad esso venduti e che ci ingannano”( K.D. Tonnesson, La Défaite des Sans-Culottes, Presses Universitaires d’Oslo, Clavreuil 1959, p. 251).
Il disordine fraterno contro il potere dei capi: in breve, il non-dominio, un legame politico non costrittivo, egualitario, contro l’ordine.
Una critica mi è stata fatta assai di frequente, e cioè che la democrazia insorgente, anzitutto negatività, anzitutto ancorata nel1 presente dell’evento insurrezionale, ignorerebbe l’istituzione, o quanto meno accorderebbe ad essa poco spazio. La democrazia insorgente si sottrarrebbe al passaggio dalla negatività all’istituzione, “modello positivo d’azione”; esisterebbe un antagonismo necessario tra insorgenza e istituzione. Certo, questa critica indica una difficoltà essenziale. Ma sarebbe una vergognosa semplificazione rappresentare i rapporti tra democrazia insorgente e istituzione solo nel segno dell’antagonismo, come se l’una si dispiegasse sempre in un fervore istantaneo e l’altra fosse irrimediabilmente preda di una staticità marmorea. Si impone una prima replica provvisoria: esiste una relazione possibile, compatibile, tra democrazia insorgente e istituzione, dal momento che l’atto costituzionale, la norma fondamentale, riconosce al popolo il diritto all’insurrezione, come nella costituzione del 1793. Chiedere il suo ripristino, significava rivendicare la legittimità dell’insurrezione.
Ora, appunto in conseguenza della disfatta dell’insurrezione di Pratile, la nuova costituzione dell’anno III, che consacrava l’ordine proprietario, ha soppresso il diritto all’insurrezione, portando un colpo irrimediabile all’immaginazione politica. Decenni di governo forte, di esperienze totalitarie, di pratiche autoritarie, rendono inconcepibile l’iscrizione di un diritto all’insurrezione in un atto costituzionale, come se il potere costituente si scontrasse qui con un “orizzonte insuperabile”, come amano dire i sostenitori dell’ordine stabilito. Tuttavia, se la democrazia mira a istituire una comunità politica che eviti il dominio, che cerchi di istituire il sociale nel segno del non-dominio, il dispositivo in grado di preservare questo principio è proprio il diritto all’insurrezione: ad esso occorre fare ricorso ogni volta che il desiderio di dominare dei Grandi rischia di sopraffare il desiderio di libertà del popolo. È una verità difficile da intendere, ma questa difficoltà dipende più dallo spirito dei tempi che dalla cosa stessa.
Ma non basta che la democrazia insorgente sia posta in rapporto all’istituzione del diritto all’insurrezione per risolvere il problema. Bisogna anche notare che questa democrazia, che ha come principio il non-dominio, non si dispiega in uno spaziotempo vuoto e indifferenziato. Il suo rapporto col fervore insurrezionale non deve trarci inganno; il fervore non è l’istantaneità.
Inoltre, essa non appartiene al solo presente. Per salvaguardare l’agire politico del popolo, la democrazia può rivolgersi a istituzioni che, al momento della loro creazione, hanno avuto il fine di favorire l’esercizio di questo agire. Così, durante gli eventi di Pratile, l’insurrezione si appoggiò alle sezioni parigine e i deputati montagnardi che la sostennero fecero votare, il 1 di Pratile, nella Convenzione invasa, la permanenza delle sezioni, soppressa da un decreto del 9 settembre 1793. Se la democrazia insorgente può instaurare una circolarità fluida tra insorgenza e istituzione, può anche realizzare una circolarità tra il presente dell’evento e il passato, nella misura in cui in esso è possibile reperire istituzioni emancipatrici, che sono altrettante promesse di libertà.
In questo caso, il popolo insorge contro il presente, che abbandona le istituzioni liberatrici, e invita invece a rispettarle. Giungiamo così a una formulazione più sfumata: la democrazia insorgente non è affatto ostile per principio a ogni istituzione e a ogni rapporto col passato, essa è invece selettiva. Portata a inscriversi nel tempo, come ogni movimento politico, essa distingue tra le istituzioni favorevoli all’azione politica del popolo e quelle che non lo sono. Il criterio del suo giudizio è quello del non-dominio. Non c’è antagonismo sistematico tra la democrazia insorgente e le istituzioni, nella misura in cui queste lavorano a preservare una condizione di non-dominio e funzionano come dighe, facendo argine al desiderio di dominare dei Grandi; così facendo, esse rendono possibili le esperienze di libertà del popolo. Inversamente, ogni istituzione governativa o di qualsivoglia tipo, suscettibile di favorire una nuova situazione di dominio nelle mani di nuovi Grandi, non può che destare l’ostilità della democrazia insorgente.
Una complessità dello stesso genere si rivela considerando il problema dal lato dell’istituzione. In tal senso, forse è bene riprendere la strada aperta da Saint-Just nelle Istituzioni repubblicane, e cioè quella che sottolinea l’opposizione tra le istituzioni e le leggi, accordando la preminenza alle istituzioni e riservando la diffidenza alle leggi, come appare nel manoscritto: “Una legge contraria alle istituzioni è tirannica […] Obbedire alle leggi, non è cosa ovvia; perché la legge spesso non è altro che la volontà di colui che la impone. Si ha il diritto di resistere alle leggi oppressive”.
Senza considerare l’insieme della posizione di Saint-Just, notiamo solo che la Repubblica deve innanzitutto essere costituita da un tessuto istituzionale, una specie di base primaria (assise): essa si distingue sia dal governo, “la macchina per governare”, sia dalle leggi sempre suscettibili di dissimulare atti di potere arbitrario. Le istituzioni che mirano a creare un legame tra i cittadini e le cittadine con rapporti generosi, devono avere entro di sé – sia nella forma che nel tenore – quasi un’essenza della repubblica, del principio repubblicano e quasi la sua anticipazione nella forma di una totalità dinamica. A tale titolo, si dichiara che queste istituzioni sono “l’anima della repubblica”.
Anche se il pensiero di Saint-Just non è del tutto compiuto, riconosciamo che egli ha saputo mettere in luce una specificità dell’istituzione, irriducibile alle leggi e alla macchina per governare. Specificità riconosciuta anche da Marx, nelle Lotte di classe in Francia, quando osserva che la repubblica del febbraio 1848, repubblica borghese, fu costretta dalla pressione del proletariato a dotarsi di istituzioni sociali; in esse egli discerne, anche se ne critica la timidezza, un movimento di superamento della repubblica borghese, “nell’idea, nell’immaginazione”. L’istituzione, più matrice che cornice, contiene in sé una dimensione immaginaria, di anticipazione, che possiede di per sé una potenza stimolante, tale da far nascere, da generare costumi o piuttosto attitudini e comportamenti, che vadano nel senso dell’emancipazione, da essa annunciata. In questo senso l’istituzione, “sistema di anticipazione” come dice Gilles Deleuze, si oppone alla legge, nella misura in cui essa contiene un appello – appello di una libertà ad altre libertà –, che la differenzia radicalmente dal vincolo caratteristico della legge, accompagnato da sanzione in caso di trasgressione. Per questo Deleuze definiva così la differenza tra l’istituzione e la legge: “Questa è una limitazione delle azioni, quella un modello positivo di azione”.
Resta un’obiezione. Non c’è incompatibilità, contraddizione, tra l’insorgenza che si manifesta in un presente in fermento, in preda a un’estrema mobilità, e l’istituzione? Incompatibilità da vari punti di vista: questo fervore sarebbe di natura tale, che l’istituzione stenterebbe ad avervi il suo spazio; inoltre, l’istituzione tenderebbe – se non proprio all’immobilismo – quanto meno a una stabilità, che in quanto tale resisterebbe al cambiamento, alla temporalità della democrazia. Per quanto riguarda il primo punto, l’abbiamo detto, è possibile che l’insorgenza – grazie a una circolazione fra il passato e il presente – trovi sostegno in alcune istituzioni, che informano un dato contesto politico. O ancora, è possibile che la democrazia insorgente, per perseverare nel suo essere e non ridursi a un fuoco d’artificio, evochi, susciti in qualche modo l’istituzione, destinata in tal caso ad articolare il principio di non-dominio con il suo ancoraggio nel tempo, ponendo a confronto due temporalità. Quanto al secondo punto, bisogna evitare conclusioni affrettate. Secondo Merleau-Ponty, l’istituzione fornisce all’esperienza una dimensione durevole( M. Merleau-Ponty, Résumés de cours, Collège de France 1952-1960, Gallimard, Paris 1968, p. 61; (trad. it. Linguaggio, storia, natura: corsi al collège de France 1952-1961, Bompiani, Milano 1995).
Ma tale carattere durevole, che continua nel tempo, non equivale affatto a un immobilismo: nella dimensione durevole può esser percepita una durata creatrice, innovatrice nel senso bergsoniano. Così si pone la domanda, se il carattere anticipatorio dell’istituzione, il suo rapporto all’immaginario, al progetto, non influenzi dall’interno “la durevolezza”: come se la dimensione durevole, invece d’essere resistenza e ostacolo al cambiamento, si trasformasse in pedana di lancio, rivelasse di essere una base che permette, con la sua stabilità relativa, la realizzazione dell’invenzione e dell’innovazione. In questa concezione anticipatrice dell’istituzione, occorrerebbe privilegiare la durata creatrice a discapito della durata lenta e uniforme, che è all’origine del rallentamento e dell’equilibrio. Dobbiamo al giurista Maurice Hauriou la distinzione tra queste due forme di durata, rispetto all’istituzione. Egli ha scritto: “L’istituzione è la categoria del movimento, da ogni punto di vista”5. In tal caso, l’istituzione potrebbe adattarsi senza difficoltà alla temporalità democratica. Qui appare una ambiguità: a quale elemento bisogna accordare la priorità, al dinamismo o alla permanenza e alla stabilità? Nell’ipotesi di una democrazia contro lo Stato, di una democrazia insorgente, che implica una distanza dalla sovranità, dalla legge, in nome dell’istituzione, quest’ultima non può che scegliere la via di una maggiore plasticità, di una maggiore apertura all’evento, di una più forte disposizione ad accogliere il nuovo.
Attraversando queste due complessità, dal lato dell’insorgenza e dal lato dell’istituzione, possiamo intravedere un modo di pensare insieme la democrazia insorgente, la sua temporalità propria, e l’istituzione, contraddicendo la critica che ci è stata rivolta; ciò è possibile nella misura in cui l’istituzione, a sua volta considerata nella sua temporalità specifica, ben lungi dall’essere estranea al fervore democratico o contrastarlo, può invece ad esso rispondere; poiché in effetti l’istituzione, non meno della democrazia, può essere concepita e praticata contro lo Stato, soprattutto se essa appare come la manifestazione di un diritto non statuale, ed anzi antistatuale, il diritto sociale. In effetti la riflessione sull’istituzione si accompagna spesso alla tesi secondo cui lo Stato non è la fonte primaria del diritto. Se continuiamo ad ascoltare Saint-Just e le sue preziose distinzioni tra leggi, istituzioni e macchina governativa, che non sono sconosciute ai filosofi dell’istituzione, comprenderemo che c’è un conflitto tra la legge, la macchina governativa da un lato, e la democrazia insorgente dall’altra parte: ma non tra questa e l’istituzione. Anche se non si deve confondere tra Stato e governo, leggiamo William Godwin, autore di Enquiry concerning political justice (1793) che ha saputo acutamente discernere il conflitto irrimediabile tra il governo e la mobilità dell’umanità: “Da qualunque punto di vista consideriamo la questione, il governo è ricco purtroppo di intenzioni deplorevoli, che è giusto lamentare. I veri interessi dell’umanità sembrano prescrivere un cambiamento incessante, una innovazione perpetua. Ma il governo è l’eterno nemico del cambiamento. Ciò che è stato acutamente osservato a proposito di un sistema determinato di governo, è in gran misura vero per tutti gli altri: essi si impadroniscono della primavera che sboccia nella società e frenano il suo movimento. La loro inclinazione è di perpetuare gli abusi… Per sua natura l’istituzione governativa (positive) tende a ostacolare l’elasticità e il progresso dello spirito umano”.
MIGUEL ABENSOUR
L’intervento qui sopra, con il permesso dell’editore, è la prefazione all’edizione italiana del libro di Muguel Abensour “La democrazia contro lo Stato” (Cronopio, 2008)