Nell’aprile 1511 il capolavoro di Erasmo da Rotterdam apparve a Parigi. “Testo sacro” (ossia pretesto micro in contesto macro) dell’umanesimo poetico – un po’ metafora, un po’ allegoria -, a nostro modesto e “molesto” parere esorta (ex-porta) all’utopia sociale, allenandoci al paradosso e a capire (carpire) che chi si dice colto spesso è soprattutto stolto (una pedagogia cultural-relazionale, questa, tra il “so di non sapere” di Socrate e il “non si vede bene che con il cuore” di Saint-Exupéry)
«L’intera vita dei mortali cos’altro è se non una commedia in cui diversi attori si fanno avanti con maschere diverse e recitano ognuno la sua parte, finché il regista non li fa uscire di scena? Spesso poi fa venire avanti la stessa persona truccata diversamente, sicché chi aveva prima recitato da re vestito di porpora ora rappresenta il servo straccione»…
Sale su una tribunetta, in abiti sgargianti, una donna che si propone di parlare non come dal pulpito, ma come i «saltimbanchi, buffoni e giullari». Così prende avvio un apologo paradossale: Moriae encomium. Erasmi declamatio, apparso a Parigi, presso Jehan Petit, nel 1511. L’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam (1469-1536) compie 500 anni e sembra appena nato: «Sopprimere l’inganno significa, insomma, scompigliare tutta quanta la recita. Ed è proprio la finzione, il trucco che cattura l’attenzione degli spettatori». Ma Erasmo non volta gli occhi dall’altra parte, scruta anzi la scena sino al fondale: «L’intera vita dei mortali, del resto, cos’altro è se non una commedia in cui diversi attori si fanno avanti con maschere diverse e recitano ognuno la sua parte, finché il regista non li fa uscire di scena? Spesso poi fa venire avanti la stessa persona truccata diversamente, sicché chi aveva prima recitato da re vestito di porpora ora rappresenta il servo straccione. Tutto finto, certo, ma non altrimenti si va in scena». Le ragioni della finzione sembrano destinate a prevalere con la forza del consenso: «Se a questo punto saltasse fuori all’improvviso un saggio calato dal cielo per proclamare a gran voce che quello che tutti venerano come dio e signore non è neanche un uomo, perché si fa trascinare dalle passioni come una bestia, bensì il più abbietto degli schiavi perché serve di propria spontanea volontà tanti e così ripugnanti padroni; ditemi un po’, cos’altro otterrebbe questi se non sembrare a tutti un pazzo furioso?». Erasmo sa che la sua parte è rischiosa, ma non recede: «Ma questo poi, santo cielo, devo dirlo o lo passo sotto silenzio? Perché tacerlo, del resto, se è più vero del vero? Anzitutto è largamente riconosciuto che gli impulsi, nella loro totalità, riguardano la stoltezza; infatti il saggio e lo stolto in questo si distinguono, che l’uno è guidato dagli impulsi, l’altro dalla ragione».
Erasmo aveva voluto perfezionare gli studi umanistici in Italia: nel 1506 ottiene il dottorato in teologia a Torino, nel 1507-1508 è ospite di Aldo Manuzio a Venezia, ove perfeziona il suo greco e pubblica la seconda edizione degli Adagia, raccolta e commento di proverbi antichi; sono ora oltre tremila, alcuni dei quali sviluppati in forma di trattato. Di lì si reca a Roma (1508-1509) e poi in Inghilterra (1509-1514), ove contempla l’ascesa di Enrico VIII, il suo sempre più deciso assolutismo, malattia che sta modificando la storia politica dell’Europa intera: tra poco il Castiglione dirà, nel IV libro del suo Cortegiano, che il principe, oggi, è «di così mala natura, che sia inveterato nei vizii come li ftisici nella infirmità» (IV, 47). Di fronte a questo accentrarsi dei poteri (così testimonia anche il Principe di Machiavelli e la stessa Institutio principis christiani, 1516, di Erasmo il quale osserverà non meno del fiorentino: «È inevitabile che tema molti colui il quale è temuto da tutti. Né può considerarsi mai sicuro colui il quale la maggior parte degli uomini vorrebbe veder morto»), le Lettere assumono una distanza sempre più marcata rispetto al “servizio” alla res publica: in Inghilterra Erasmo dialoga con Thomas More che tra poco, 1516, pubblica la sua Utopia. L’uno e l’altro, con i due trattati, inaugurano un Rinascimento critico che li pone al di sopra della querelle della Riforma e li collega direttamente a quella linea ironica e sapienziale, paradossale e libera, che continuerà in Rabelais e in Montaigne. Quello è stato il vero Rinascimento, ancorato alla saggezza di ciò che è sgombro d’orpelli, nella giustezza della semplicità, che agisce e non definisce: «Gli apostoli ribadiscono il valore della grazia, mai tuttavia si mettono a discutere su cosa distingua la grazia gratis data e la grazia gratificante. Esortano alle buone opere, e mai cavillano tra opera operante e opera operata. Elogiano la carità e non distinguono tra quella infusa e quella acquisita». In termini non dissimili, contro ogni contesa confessionale, si esprimerà più tardi Montaigne: «Non so come dire, ma si sente per esperienza che troppe interpretazioni dissipano la verità e l’infrangono. Ho visto in Germania che Lutero ha lasciato tante divisioni e dispute sul senso da dare alle sue opinioni, ben più di quante ne rimuova sulle Scritture sante» (Saggi, libro III, cap. XIII: Dell’esperienza).
La follia che Erasmo mette in scena non è quella dell’Orlando furioso che perde il senno per malattia d’amore: dedicando l’apologo a Thomas More appunto, l’autore segnala di volersi inscrivere nella tradizione classica dell’elogio paradossale, quale Sinesio aveva illustrato con l’elogio della calvizie, Luciano con l’elogio della mosca, Luciano e Apuleio con l’Asino (così, poco dopo, il Cortegiano stesso inaugura i propri giochi interrogandosi con quale tipo di pazzia sia meglio impazzire). E subito Erasmo trova il modo di affermare che il suo non sarà tuttavia un amabile divertissement, ma l’esame critico, serrato, del tempo presente: «Trovi certuni il cui zelo religioso è così distorto da tollerare piuttosto le più gravi offese a Cristo di una leggerissima battuta lanciata contro un papa o un principe, specialmente se è questione di soldi». Il proprio fondamento è infatti nella sapienza biblica, evocata a compimento del trattato: «Infinito è il numero degli stolti», dice l’Ecclesiaste. Erasmo riesce nel suo trattato a conciliare saggezza classica ed eredità biblica, a mostrare la vanità dei saperi terreni poiché «Cristo stesso nel vangelo dichiara che nessuno deve chiamarsi buono fuorché Dio solo».
La follia così, entrando in scena e tessendo il proprio autoelogio, mostra subito che parlare di sé vuol dire parlare del mondo, poiché in esso tutto è follia; nulla in esso è felice: la propria origine infatti è – in questo atteggiandosi su un registro utopico-ironico che sarà poi quello del trattato di Thomas More – nelle Isole Fortunate, poiché follia è pensare che da qualche parte l’uomo sia stato felice: «Io non sono nata né sull’isola di Delo errante, né dall’ondoso mare, né nelle profonde caverne, bensì proprio nelle Isole Fortunate, dove tutto germoglia senza che si debba seminare e arare, dove non c’è assolutamente né fatica né vecchiaia né morte».
Ma il trattato-monologo, lungi dal limitarsi al rovesciamento dei valori mondani, arriva a concludere che di questa natura stessa è il messaggio evangelico, poiché san Paolo ricorda che l’annuncio cristiano è paradosso: «Dov’è il sapiente, dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Mentre infatti i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e follia per i pagani» (I Cor., I, 20-23); mentre oggi – chiosa Erasmo – i pontefici lasciano il Cristo spegnersi lentamente col loro silenzio: «pontifices qui silentio Christum sinunt abolescere» ( e tralascio per pietà il resto della gradatio).
Da Erasmo a Thomas More, da Rabelais a Montaigne a Shakespeare c’è stato un Cinquecento che non si lasciò irretire dalle contese religiose, che tolse all’eredità classica i paludamenti aulici e alla tradizione patristica i tratti apologetici per andare a fondo nell’esame della condizione umana, fragile e meravigliosa, vana e tuttavia preziosa: lo ricordò in un saggio – tra i più belli che il XX secolo abbia dedicato al Rinascimento – Rosalie Colie nel suo mirabile Paradoxia epidemica: the Renaissance tradition of paradox, 1966.
Erasmo stesso è stato nel Novecento l’autore eletto di una piccola schiera di saggi che hanno resistito alla barbarie dei totalitarismi: basti pensare all’Erasmo, 1924, di Johan Huizinga (Groninga, 7 dicembre 1872 – Arnhem, 1 febbraio 1945), morto in un campo di contenimento, prigioniero dei nazisti. Nel descrivere il trattato, l’autore dell’inobliabile Autunno del Medioevo, ci lascia il più bel ritratto di Erasmo e del Rinascimento: «Si vedono i visi degli ascoltatori improvvisamente rischiararsi di gioia quando la Pazzia appare; si odono gli applausi con cui interrompono il suo dire. C’è tanta ricchezza di fantasia, unita a tanta sobrietà di linea e di colore, a tanta riservatezza, che ne sorge un quadro dotato di quella perfetta armonia che costituisce la caratteristica essenziale del Rinascimento» (cap. IX). Riservatezza, sobrietà, armonia: ex forti dulcedo.
(Carlo Ossola, IlSole24Ore, Inserto domenicale cultura)